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Dio è uno che soffre perché è uno che ama; la tematica del Dio sofferente deriva dalla tematica del Dio che ama, e rinvia continuamente ad essa. Il vero superamento del concetto antico di Dio da parte di quello cristiano sta nel riconoscimento che Dio è amore

Joseph Ratzinger, Mistero pasquale e devozione al Cuore di Gesù, Apostolato della Preghiera, Roma 2010, pp. 16-24.


2.2 L’importanza dei sensi e del sentimento per la devozione

Con quanto abbiamo appena detto abbiamo già ricordato la conclusione essenziale che l’Enciclica [Haurietis aquas] trae dalla sua teologia della corporeità e dall’incarnazione: per rendersi conto del mistero di Dio, l’uomo ha bisogno di guardare, di quel fermarsi a guardare che diventa toccare. Egli deve salire la «scala» del corpo, per trovare su di essa il cammino al quale lo invita la fede.

A partire dalla problematica attuale si potrebbe dire: la cosiddetta devozione oggettiva, basata sulla partecipazione alla celebrazione della liturgia, non basta. Lo straordinario approfondimento spirituale che la mistica medievale e la grande devozione ecclesiale dell’età moderna hanno prodotto, non può, in nome di una riscoperta della Bibbia e dei Padri, essere messo da parte come superato o addirittura come erroneo. La liturgia stessa può essere celebrata in conformità alla sua particolare esigenza solo se è preparata e accompagnata dal «sostare» [16] meditativo nel quale il cuore comincia a vedere e comprendere, e così anche i sensi sono inclusi nella visione del cuore.

Infatti «solo con il cuore si vede bene», come fa dire Saint-Exupéry al suo piccolo principe, che può essere preso anche come un simbolo di quel «diventare come bambini» che dalla dotta follia del mondo degli adulti ritorna alla vera realtà dell'uomo, che sfugge al puro intelletto.



Così la teologia della corporeità esposta dall'Enciclica è al tempo stesso un’apologia del cuore, dei sensi e del sentimento, anche e proprio nel campo della devozione. Per questo l'Enciclica si basa tra l'altro su Ef 3,17-19: «... e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l'amore di Cristo che supera ogni conoscenza».

Già nei Padri, e in particolare nella tradizione che proviene dallo Pseudo-Dionigi, questo passo aveva portato a sottolineare i limiti della ragione. Nella tradizione dionisiana, a partire da questo nasce l'espressione «ignote conoscere», «conoscere nel non conoscere», che poi conduce al concetto di «docta ignorantia»; nasce la mistica dell’oscurità, nella quale solo l'amore vede ancora [nota 1].

Qui si potrebbero citare molti testi, in partico[17]lare l'espressione di san Gregorio Magno: «..Amor ipse notitia est», «l'amore stesso è conoscenza»; poi quella di Ugo di san Vittore: «Intrat dilectio et appropinquat, ubi scientia foris est», «l'amore entra e si avvicina, mentre il sapere resta fuori»; o la bella formula di Riccardo di san Vittore: «Amor oculus est et amare videre est», «l'amore è l'occhio, e amare è vedere» [nota 2].

Ma l’Enciclica si sofferma qui sul versetto 18, sui termini «larghezza, lunghezza, altezza e profondità», e ne dà questa interpretazione: «Occorre tener ben presente che il suo [di Dio] amore non fu unicamente spirituale». Le affermazioni dell’Antico Testamento, in particolare quelle dei salmi e del Cantico dei cantici, sono espressione di un amore completamente spirituale, «mentre l’amore che spira dal Vangelo, dalle lettere degli Apostoli e dalle pagine dell’Apocalisse [...] non comprende soltanto la carità divina, ma si estende ai sentimenti dell’affetto umano [...]. Il Verbo di Dio, infatti, non ha assunto un corpo illusorio e fittizio» [nota 3].

Così qui noi siamo invitati esplicitamente a una devozione espressa con i sensi, che corrisponde alla natura corporea dell’amore divino-umano di Gesù Cristo.
Ma per l’Enciclica la devozione espressa con i sensi è essenzialmente una devozione del cuore, dal momento [18] che il cuore è il fondamento riassuntivo dei sensi, il luogo dell'incontro e della compenetrazione di sensibilità e spirito, che si unificano in esso.

La devozione espressa con i sensi è una devozione che corrisponde al detto del card. Newman: «Cor ad cor loquitur» («il cuore parla al cuore»), un'espressione che forse si può riconoscere come la sintesi più bella di ciò che è la devozione del cuore in quanto devozione rivolta al Cuore di Gesù.

A queste riflessioni fatte a partire dalla tradizione della devozione al Cuore di Gesù l’Enciclica aggiunge ancora un’altra importante serie di motivi: il cuore è l’espressione delle pathe («passiones») dell'uomo – delle sue passioni, e così della «passione» dell’essere umano in generale. Di fronte all’ideale stoico dell’apatia, di fronte al Dio aristotelico, che è pensiero del pensiero, il cuore si presenta come l’essenza delle passioni, senza le quali non ci sarebbe potuta essere la passione del Figlio.

L’Enciclica cita Giustino, Basilio, Crisostomo, Ambrogio, Girolamo, Agostino e Giovanni Damasceno, per vedere riflessa in diverse variazioni l’unica proposizione come patrimonio comune della cristologia patristica: «... passionum nostrarum particeps factus est» («si è reso partecipe delle nostre umane “passioni”» [nota 4]). [19]

Per i Padri che provenivano dall'ideale morale della Stoa, dall'ideale dell’atarassia del saggio, nel quale intelligenza e volontà dominano e superano il sentimento irrazionale, era proprio questo uno dei punti nei quali la sintesi di eredità greca e fede biblica diventava più difficile. Il Dio dell'Antico Testamento. che si adira, si commuove e ama, talvolta sembrava più vicino agli dèi delle religioni superato che al sublime concetto di Dio della filosofia antica, attraverso il quale era stata possibile la penetrazione del monoteismo nel mondo mediterraneo.

Agostino non poté trovare, a partire dall’Hortensius di Cicerone, la via per ritornare alla Bibbia; così rimase forte la tentazione di quella gnosi che separava il Dio dell'Antico Testamento dal Dio della Nuova Alleanza.
D'altra parte, non si doveva neppure ignorare che la figura di Gesù, il quale prova angoscia, si adira, si rallegra, spera e si scoraggia, sta nella linea della concezione anticotestamentaria di Dio, addirittura in lui, che è il Logos incarnato, gli antropomorfismi dell’Antico Testamento raggiungono la loro estrema radicalizzazione e la loro massima profondità.
Il tentativo docetista di spiegare la sofferenza di Gesù come mera apparenza derivava evidentemente dalla Stoa.

Ma per chi legge la Bibbia senza pregiudizi dev’essere chiaro che in questo modo veniva messo in questione il nucleo della testimonianza biblica di Cristo, il mistero pasquale. Era impossibile mettere in dubbio la sofferenza di Cristo, ma [20] non c’è «Passio», Passione, senza «passiones», passioni. La sofferenza presuppone la capacità di soffrire, presuppone la forza dei sentimenti.

Nell'epoca dei Padri, certamente Origene è stato colui che ha compreso più profondamente la tematica del Dio sofferente e che ha  anche affermato apertamente che questo tema non può essere ridotto all'umanità sofferente di Gesù, ma tocca la stessa immagine cristiana di Dio. Lasciare soffrire il Figlio è nello stesso tempo la passione del Padre, e in questo soffre anche lo Spirito, il quale, come dice Paolo, geme in noi e porta in noi e per noi la passione dell’anelito alla piena redenzione (cf. Rm 8,26-27) [nota 5].

Origene è stato anche colui che ha dato l'interpretazione autorevole del tema del Dio sofferente: «Quando senti parlare delle passioni di Dio, allora riferisci sem[21]pre questo all’amore» [nota 6].
Dio pertanto è uno che soffre perché è uno che ama; la tematica del Dio sofferente deriva dalla tematica del Dio che ama, e rinvia continuamente ad essa. Il vero superamento del concetto antico di Dio da parte di quello cristiano sta nel riconoscimento che Dio è amore [nota 7]. [22]

Il tema del Dio sofferente oggi è diventato quasi di moda, per il distacco non immotivato da una teologia segnata in modo unilaterale dalla ragione e da un impoverimento sia della figura di Gesù, sia di una rappresentazione di Dio nella quale l’amore di Dio è degenerato nella benevolenza di «un buon Dio» [nota 8].
Su questo sfondo il cristianesimo viene ridotto a un fattore di miglioramento filantropico del mondo, e l’Eucaristia a un pasto fraterno. Ma la tematica del Dio sofferente può rimanere pura, solo se è ancorata nell’amore per Dio e nel volgersi orante al suo amore.

Dal punto di vista dell’enciclica Haurietis aquas le passioni di Gesù, che si presentano contenute e riassunte nel cuore, fondano e giustificano il fatto che nella relazione dell’uomo con Dio dev’essere incluso anche il cuore, ossia la capacità di sentire, l’aspetto emotivo dell’amore.
Una devozione incarnata dev’essere una devozione appassionata, una devozione di «cuore a [23] cuore» e proprio cosi è una devozione pasquale, poiché il mistero della Pasqua, in quanto mistero di sofferenza, è nella sua essenza mistero del cuore.

L’evoluzione che c’è stata dopo il Concilio ha confermato questo punto di vista dell’Enciclica. Certamente la teologia oggi non si confronta più con nessun ethos stoico dell'apatia, ma si trova davanti a una razionalità tecnica che spinge la realtà emozionale dell'uomo nell’irrazionale e parimenti attribuisce al corpo un ruolo puramente strumentale. A ciò corrisponde un certo disprezzo dell'aspetto emotivo nella devozione, a cui è seguita nel frattempo un'ondata emozionale, che però spesso è caratterizzata dall'assenza di ordine e di legami. Si potrebbe dire che il disprezzo del pathos conduce alla sua patologia, mentre si dovrebbe andare verso la sua integrazione nella totalità dell'esistenza umana e del nostro essere davanti a Dio.

Similmente la rinuncia a una devozione visiva e contemplativa in favore di un'attività esclusivamente comunitaria ha provocato una moda della meditazione, che si affianca ai contenuti del cristianesimo senza avere alcuna relazione con essi, o che addirittura li sente come un ostacolo. Proprio questi sviluppi mostrano quale perdita si sia avuta nella v ita della Chiesa nel momento in cui si è creduto di poter mettere da parte come insignificante l’intera devozione del secondo millennio cristiano e di potersi accontentare di ciò che si considerava  la pura devozione della Bibbia e dei primi secoli. [24]




[nota 1] Su questo, cfr. le importanti analisi di E. von Ivánka, Plato christianus, Einsiedeln 1964, pp. 309-385. [17]

[nota 2] PL 196, 1203. Cfr. E. von Ivánka, Plato christianus, cit., pp. 309. 335. [18]

[nota 3] Haurietis aquas, II, in in AAS 48 (1956), cit., pp. 322-323. [18]

[nota 4] Ibid., pp. 325-326. [19]

[nota 5] Cfr. Origene, In Ezechielem Homiliae, 6,6 (ed. Baehrens, VIII, 384-385): «Nemmeno il Padre è impassibile (impassibilis). Se lo preghiamo, prova pietà e misericordia, soffre di amore e s’immedesima nei sentimenti che sono incompatibili con la grandezza della sua natura». In modo simile si esprime Gregorio Nazianzeno nella poesia sulla natura umana (vv. 121-122: PG 37, 765). Per l’interpretazione di questo testo, cfr. H. U. von Balthasar, Das Ganze im Fragment, Einsiedeln 1963, pp. 330-333 (trad. it., Il tutto nel frammento, Jaca Book, Milano 1970). Sulla «passione» dello Spirito, cfr. la profonda interpretazione di Rm 8,26 in H. Schlier, Der Römerbrief, Friburgo 1977, pp. 368 ss. (trad. it, La lettera ai Romani, Paideia, Brescia 1982). [21]

[nota 6] Cfr. H. De Lubac, Geist und Geschichte. Das Schriftverstandnis der Origenes, Einsiedeln 1968, pp. 284-289 (trad. it., Storia e Spirito, La comprensione della Scrittura secondo Origene, Paoline, Roma 1971). De Lubac colloca Origene nella storia dell’interpretazione della Bibbia e trova una corrispondenza di contenuto e uno sviluppo dell’idea dell’Alessandrino nella bella espressione di san Bernardo di Chiaravalle: «Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis» (In Cantica Canticorum, 26, n. 5: PL 183, 906); e vede nell’espressione di Pascal: «Tutto ciò che non mira alla carità, è figura» (Pensées, ed. Brunschvicg, n. 670; trad. it., Pensieri, Roma 1992), il nucleo dell’ermeneutica anche di Origene. [22]

[nota 7] Questo dev’essere chiaramente fissato, per non favorire un nuovo patripassianismo, come quello che sembra presentarsi in J. Moltmann, Der gekreuzigte Gott, München 1972 (trad. it., Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 1974). Sulla discussione riguardo a questo punto, cfr. H. U. von Balthasar, «Zu einer christlichen Theologie der Hoffnung», in Münchener Theologische Zeitschrift 32 ( 1981 ) 81-102. Per la discussione più recente sulla sofferenza di Dio, è importante J. Galot, Dieu souffre-t-il?, Paris 1976. H. U. von Balthasar, Theodramatik IV (Das Endspiel), Einsiedeln 1983, pp. 191-222 (trad. it., Teodrammatica IV [L'ultimo atto], Jaca Book, Milano 1986) fa una specie di bilancio. Come Galot, anche von Balthasar in questo contesto rimanda a un significativo scritto di Maritain: «Quelques réflexions sur le savoir théologique», in Revue Thomiste 11 (1969) 5-27, di cui von Balthasar cita la frase: «Dio soffre con noi e più di noi; “compatisce”, finché c’è sofferenza [22] nel mondo» ( p. 239). Così viene ripresa la linea di san Bernardo: «Impassibilis sed non incompassibilis» (cfr. la nota precedente), che a me sembra essere particolarmente conforme alla Bibbia e alla tradizione. L’Enciclica del Papa Giovanni Paolo II Dives in Misericordia, del 30 novembre 1980, riprende proprio questo punto (importante è la nota 52, ricca di contenuto) e così coglie il motivo centrale che collega teologia, cristologia e antropologia. Sui problemi filosofici della nostra questione, è importante M. Gervais, «Incarnation et immutabilité divine», in Revue de Sciences Religieuses 50 (1976) 215-243. [23]

[nota 8] Cfr. H. Kung, «Woran man sich halten kann», in Münchener Theologische Zeitschrift 30 (1979) 49-52.

Per leggere la prima parte della conferenza (§1)


Per leggere la seconda parte della conferenza (§2 e 2.1)

Per leggere la continuazione della conferenza (§2.3 a) )

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