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L'ingresso in Gerusalemme di Gesù

tratto da Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 11-34

Capitolo 1 - Ingresso in Gerusalemme e purificazione del Tempio

1. L’ingresso in Gerusalemme
Il Vangelo di Giovanni riferisce su tre feste di Pasqua, che Gesù ha celebrato durante il periodo della sua vita pubblica: una prima Pasqua, alla quale era legata la purificazione del tempio (2,13-25); la Pasqua della moltiplicazione dei pani (6,4) e infine la Pasqua della morte e risurrezione (p. es. 12,1; 13,1), che è divenuta la «sua» grande Pasqua, sulla quale si fonda la festa cristiana, la Pasqua dei cristiani. I sinottici hanno trasmesso notizia di una sola Pasqua: quella della croce e risurrezione; in Luca il cammino di Gesù appare quasi come un unico ascendere in pellegrinaggio dalla Galilea fino a Gerusalemme.
È una «ascesa» innanzitutto nel senso geografico: il Mare di Galilea è situato a 200 metri circa sotto il livello del mare, l’altezza media di Gerusalemme è di 760 metri al di sopra di tale livello. Come gradini di questa salita, ciascuno dei sinottici ci ha trasmesso tre profezie di Gesù circa la sua passione, alludendo con ciò anche all’ascesa interiore, che si svolge nel cammino esteriore: l’andar su verso il tempio come luogo dove Dio voleva «stabilire il suo nome» – così il Libro del Deuteronomio descrive il tempio (cfr 12,11; 14,23). [11]
L’ultima meta di questa «ascesa» di Gesù è l’offerta di se stesso sulla croce, offerta che sostituisce i sacrifici antichi; è la salita che la Lettera agli Ebrei qualifica come l’ascesa verso la tenda non più fatta da mani d’uomo, ossia nel cielo stesso, al cospetto di Dio (9,24). Questa ascesa fino al cospetto di Dio passa attraverso la croce – è la salita verso l’«amore sino alla fine» (cfr Gv 13,1), che è il vero monte di Dio.


La meta immediata del pellegrinaggio di Gesù, tuttavia, è Gerusalemme, la città santa con il suo tempio, e la «Pasqua dei Giudei», come la chiama Giovanni (2,13). Gesù si era incamminato insieme ai Dodici, ma poco a poco si era associata a loro una schiera crescente di pellegrini; Matteo e Marco ci raccontano che già alla partenza da Gerico c’era una «grande folla» che seguiva Gesù (Mt 20,29; cfr Mc 10,46).
Un evento in quest’ultimo tratto del percorso aumenta l’attesa di ciò che sta per avvenire e mette Gesù in modo nuovo al centro dell’attenzione dei pellegrini. Lungo la strada sta seduto un mendicante cieco di nome Bartimeo. Egli viene a sapere che fra i pellegrini c’è Gesù, e allora non cessa più di gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (Mc 10,47). Si cerca di quietarlo, ma invano, e alla fine Gesù lo invita ad avvicinarsi. Alla sua supplica: «Rabbunì, che io riabbia la vista!», Gesù risponde: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
Bartimeo riacquistò la vista «e prese a seguire Gesù per la strada» (Mc 10,48-52). Diventato vedente, egli si associò al pellegrinaggio verso Geru[12]salemme. A un tratto il tema «Davide» e la sua intrinseca speranza messianica s’impadronì della folla: quel Gesù, col quale erano in cammino, non era forse davvero l’atteso nuovo Davide? Con il suo ingresso nella città santa era forse arrivata l’ora in cui Egli avrebbe ristabilito il regno di Davide?

La preparazione, che Gesù realizza con i suoi discepoli, aumenta questa speranza. Gesù arriva al Monte degli ulivi dalla direzione di Bètfage e Betània, da dove si attende l’ingresso del Messia. Manda avanti due discepoli ai quali dice che avrebbero trovato un asino legato, un puledro, sul quale nessuno era mai salito. Devono scioglierlo e portarglielo; ad un’eventuale domanda circa la loro legittimazione devono rispondere: «Il Signore ne ha bisogno» (Mc 11,3; Lc 19,31). I discepoli trovano l’asino, vengono – come previsto – interrogati circa il loro diritto, danno la risposta loro ordinata e possono compiere la loro missione. Così Gesù entra in città su un asino preso in prestito, 24/613 che subito dopo farà riportare al suo padrone.
Al lettore di oggi tutto ciò può sembrare piuttosto trascurabile, ma per i giudei contemporanei di Gesù è gravido di riferimenti misteriosi. In ogni particolare è presente il tema della regalità con le sue promesse. Gesù rivendica il diritto regale della requisizione di mezzi di trasporto, un diritto noto in tutta l’antichità (cfr Pesch, Markusevangelium II, p. 180). Anche il fatto che si tratti di un animale, sul quale non è ancora salito nessuno, rimanda a un diritto regale. Soprattutto, però, c’è [13] un’allusione a quelle parole veterotestamentarie che danno all’intero svolgimento il suo significato più profondo.
C’è innanzitutto Genesi 49,10s – la benedizione di Giacobbe, in cui viene assegnato a Giuda lo scettro, il bastone del comando, che non sarà tolto tra i suoi piedi «finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli». Di Lui si dice che Egli lega alla vite il suo asinello (49,11). L’asino legato rimanda quindi a Colui che deve venire, a cui «è dovuta l’obbedienza dei popoli».
Ancora più importante è Zaccaria 9,9 – il testo che Matteo e Giovanni citano esplicitamente per la comprensione della «Domenica delle Palme»: «Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma» (Mt 21,5; cfr Zc 9,9; Gv 12,15). Sul significato di queste parole del profeta per la comprensione della figura di Gesù abbiamo già riflettuto ampiamente commentando la beatitudine dei miti (dei mansueti) (cfr Parte I, pp. 104-109). Egli è un re che spezza gli archi da guerra, un re della pace e un re della semplicità, un re dei poveri. E infine abbiamo visto che Egli governa un regno che si estende da mare a mare e abbraccia il mondo intero (cfr ibid., p. 105); questo ci ha ricordato il nuovo regno universale di Gesù che, nelle comunità della frazione del pane, cioè nella comunione con Gesù Cristo, si espande da mare a mare quale regno della sua pace (cfr ibid., p. 108s). Tutto ciò allora non era percepibile, ma in retrospettiva si rende evidente quanto – nasco[14]sto nella visione profetica – era appena accennato solo da lontano.
Per ora teniamo a mente: Gesù rivendica, di fatto, un diritto regale. Vuole che si comprenda il suo cammino e il suo agire in base alle promesse dell’Antico Testamento, che in Lui diventano realtà. L’Antico Testamento parla di Lui – e inversamente: Egli agisce e vive nella parola di Dio, non secondo programmi e desideri suoi propri. La sua esigenza si basa sull’obbedienza di fronte all’ordine del Padre. Il suo è un cammino all’interno della parola di Dio. L’ancoraggio a Zaccaria 9,9 esclude al contempo un’interpretazione «zelota» della regalità: Gesù non si fonda sulla violenza; non avvia un’insurrezione militare contro Roma. Il suo potere è di carattere diverso: è nella povertà di Dio, nella pace di Dio, che Egli individua l’unico potere salvifico.

Ritorniamo allo svolgimento del racconto. L’asinello viene condotto a Gesù, e ora avviene qualcosa di inaspettato: i discepoli gettano sull’asino i loro mantelli; mentre Matteo (21,7) e Marco (11,7) dicono semplicemente: «ed Egli vi si pose a sedere», Luca scrive: «vi fecero salire Gesù» (19,35). È questa la parola usata nel Primo Libro dei Re nel racconto dell’elevazione di Salomone sul trono di suo padre Davide. Lì si legge che il re Davide ordina al sacerdote Zadòk, al profeta Natan e a Benaià: «Prendete con voi la guardia del vostro signore: fate montare Salomone, mio figlio, sulla mia mula e fatelo scendere a Ghicon! Ivi il sacerdote Zadòk con il profeta Natan lo unga re d’Israele…» (1,33s). [15]
Anche lo stendere i mantelli ha una sua tradizione nella regalità di Israele (cfr 2 Re 9,13). Ciò che i discepoli fanno è un gesto di intronizzazione nella tradizione della regalità davidica e così nella speranza messianica, che da questa tradizione si è sviluppata. I pellegrini, che insieme a Gesù sono venuti a Gerusalemme, si lasciano contagiare dall’entusiasmo dei discepoli; stendono ora i loro mantelli sulla strada sulla quale Egli avanza. Tagliano rami dagli alberi e gridano parole del Salmo 118 – parole di preghiera della liturgia dei pellegrini di Israele – che sulle loro labbra diventano una proclamazione messianica: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!» (Mc 11,9s; cfr Sal 118,25s).
Questa acclamazione viene trasmessa da tutti e quattro gli evangelisti, anche se con le loro specifiche varianti. Di tali differenze non irrilevanti per la storia della trasmissione e per la visione teologica dei singoli evangelisti non dobbiamo occuparci in questo luogo. Cerchiamo soltanto di comprendere le essenziali linee di fondo, tanto più che la liturgia cristiana ha accolto questo saluto interpretandolo in base alla fede pasquale della Chiesa.
C’è innanzitutto l’esclamazione: «Osanna!». All’origine, questa era stata una parola di supplica, come: «Deh, aiutaci!». Nel settimo giorno della festa delle Capanne, i sacerdoti, girando sette volte intorno all’altare dell’incenso, l’avevano ripetuta in modo monotono come supplica per la pioggia. Ma così come la festa delle Capanne da [16] festa di supplica si trasformò in una festa di gioia, la supplica divenne sempre di più un’esclamazione di giubilo (cfr Lohse, ThWNT IX, p. 682).
Probabilmente già ai tempi di Gesù, la parola aveva assunto anche un significato messianico. Possiamo così nell’esclamazione «osanna» riconoscere un’espressione dei molteplici sentimenti sia dei pellegrini venuti con Gesù sia dei suoi discepoli: una lode gioiosa a Dio nel momento di quell’ingresso; la speranza che fosse arrivata l’ora del Messia e al contempo la richiesta che si realizzasse nuovamente il regno di Davide e con esso il regno di Dio su Israele.
L’espressione seguente del Salmo 118: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore», apparteneva, come s’è detto, in un primo tempo alla liturgia di Israele per i pellegrini, con la quale essi venivano salutati all’ingresso della città o del tempio. È quanto dimostra anche la seconda parte del versetto: «Vi benediciamo dalla casa del Signore». Era una benedizione che dai sacerdoti veniva rivolta e quasi applicata ai pellegrini in arrivo. Ma l’espressione «che viene nel nome del Signore» nel frattempo aveva assunto un significato messianico. Anzi, era diventata addirittura la denominazione di Colui che era stato promesso da Dio. Così, da una benedizione per i pellegrini, l’espressione si è trasformata in una lode di Gesù, che è salutato come Colui che viene nel nome del Signore, come l’Atteso e l’Annunciato da tutte le promesse.
Il particolare riferimento davidico che si trova [17] soltanto nel testo di Marco riproduce per noi forse nel modo più originale l’attesa dei pellegrini di quell’ora. Luca, che invece scrive per i cristiani provenienti dal paganesimo, ha del tutto omesso l’osanna e il riferimento a Davide, sostituendolo con l’esclamazione che allude al Natale: «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» (19,38; cfr 2,14). Da tutti e tre i Vangeli sinottici, ma anche da Giovanni, si evince chiaramente che la scena dell’ossequio messianico a Gesù si è svolta all’ingresso della città e che i suoi protagonisti non erano gli abitanti di Gerusalemme, ma coloro che accompagnavano Gesù entrando con Lui nella città santa.
Matteo ce lo fa capire nel modo più esplicito, proseguendo dopo il racconto dell’osanna rivolto a Gesù, figlio di Davide, così: «Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: “Chi è costui?” E la folla rispondeva: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea”» (21,10s). Il parallelismo con la narrazione dei magi dall’Oriente è evidente. Anche allora nella città di Gerusalemme non si sapeva niente del neonato re dei Giudei; la notizia di ciò aveva lasciato Gerusalemme «turbata» (Mt 2,3). Ora ci si «spaventa»: Matteo usa la parola eseísthē (seíō) che esprime lo sconvolgimento causato da un terremoto.
Del profeta proveniente da Nazaret si era in qualche modo sentito dire, ma Egli sembrava non avere alcun rilievo per Gerusalemme, non era conosciuto. La folla che, alla periferia della città, rendeva omaggio a Gesù non è la stessa che avrebbe [18] poi chiesto la sua crocifissione. In questa duplice notizia circa il non-riconoscimento di Gesù – un atteggiamento di indifferenza e di spavento insieme – c’è già un qualche accenno alla tragedia della città, che Gesù ha annunziato ripetutamente, in modo più esplicito, nel suo discorso escatologico.
In Matteo, però, c’è anche un ulteriore importante testo, proprio di lui soltanto, circa l’accoglienza di Gesù nella città santa. Dopo la purificazione del tempio, alcuni fanciulli ripetono nel tempio le parole dell’omaggio: «Osanna al figlio di Davide» (21,15). Gesù difende l’acclamazione dei fanciulli davanti ai «sommi sacerdoti e agli scribi» col riferimento al Salmo 8,3: «Dalla bocca di bambini e di lattanti hai tratto per te una lode». Ritorneremo ancora a questa scena nella riflessione sulla purificazione del tempio. Cerchiamo qui di comprendere che cosa Gesù ha voluto dire col riferimento al Salmo 8, un’allusione con la quale ha spalancato una vasta prospettiva storico-salvifica.
Ciò che Egli intendeva si rende evidente, se ricordiamo l’episodio, riferito da tutti gli evangelisti sinottici, circa i bambini condotti da Gesù, «perché li accarezzasse». Contro la resistenza dei discepoli, che vogliono difenderlo di fronte a questa invadenza, Gesù chiama i bambini a sé, impone loro le mani e li benedice. Egli spiega poi questo gesto con le parole: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,13-16). I [19] bambini sono per Gesù l’esempio per eccellenza di quell’essere piccoli davanti a Dio che è necessario per poter passare attraverso la «cruna dell’ago», di cui parla il racconto del giovane ricco nel brano che segue immediatamente (Mc 10,17-27).
Prima c’era già stato l’episodio in cui Gesù aveva reagito alla disputa per la precedenza tra i discepoli mettendo in mezzo un bambino e, abbracciandolo, aveva detto: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,33-37). Gesù si identifica col bambino – Egli stesso si è fatto piccolo. Come Figlio non fa niente da sé, ma agisce totalmente a partire dal Padre e in vista di Lui.
In base a ciò si capisce poi anche la pericope successiva, in cui non si parla più di bambini, ma dei «piccoli» e l’espressione «i piccoli» diventa addirittura la denominazione dei credenti, della comunità dei discepoli di Gesù (cfr Mc 9,42). Nella fede essi hanno trovato questo autentico essere piccoli, che riporta l’uomo alla sua verità.
Con ciò ritorniamo all’«osanna» dei bambini: nella luce del Salmo 8 la lode dei bambini appare come un’anticipazione della lode che i suoi «piccoli» intoneranno a Lui molto al di là di questa ora.

Per questo, con buona ragione la Chiesa nascente poteva vedere in tale scena la rappresentazione anticipata di ciò che essa fa nella liturgia. Già nel testo liturgico post-pasquale più antico che conosciamo – nella Didachē (intorno all’anno 100) – prima della distribuzione dei Doni sacri appare [20] l’«osanna» insieme col «Maranatha»: «Venga la grazia e passi questo mondo. Osanna al Dio di Davide. Chi è santo, acceda; chi non lo è, si converta. Maranatha. Amen» (10,6).
Molto presto è stato inserito nella liturgia anche il Benedictus: per la Chiesa nascente la «Domenica delle Palme» non era una cosa del passato. Come allora il Signore era entrato nella città santa cavalcando l’asinello, così la Chiesa lo vedeva arrivare sempre di nuovo sotto le apparenze umili del pane e del vino.
La Chiesa saluta il Signore nella santa Eucaristia come Colui che viene ora, che è entrato in mezzo ad essa. E al contempo Lo saluta come Colui che rimane sempre il Veniente e ci prepara alla sua venuta. Come pellegrini andiamo verso di Lui; come pellegrino Egli ci viene incontro e ci coinvolge nella sua «ascesa» verso la croce e la risurrezione, verso la Gerusalemme definitiva che, nella comunione col suo Corpo, già si sta sviluppando in mezzo a questo mondo.

2. La purificazione del Tempio
Marco ci racconta che Gesù dopo questa accoglienza andò nel tempio, guardò ogni cosa attorno e, essendo ormai tardi, si recò a Betània, dove alloggiava durante quella settimana. Il giorno dopo entrò di nuovo nel tempio e cominciò a cacciare fuori quelli che vendevano e quelli che compravano; «rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe» (11,5). [21]
Gesù giustifica questo suo agire con una parola del profeta Isaia che Egli integra con una parola di Geremia: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri» (Mc 11,17; cfr Is 56,7; Ger 7,11). Che cosa ha fatto Gesù? Che cosa intendeva dire?

Nella letteratura esegetica si possono individuare tre grandi linee di interpretazione, che dobbiamo brevemente considerare.
C’è innanzitutto la tesi, secondo cui la purificazione del tempio non significava un attacco contro il tempio come tale, ma colpiva solo gli abusi. Certo, i commercianti erano autorizzati dall’autorità giudaica, che ne traeva un grande profitto. In questo senso l’agire dei cambiamonete e dei commercianti di bestiame era legittimo entro le norme in vigore; era anche comprensibile che per le monete romane in uso, che a motivo dell’immagine dell’imperatore dovevano essere considerate idolatriche, si provvedesse al loro cambio nella valuta del tempio proprio entro l’ampio cortile dei gentili e lì si vendessero anche gli animali da sacrificare. Ma, secondo l’impostazione architettonica del tempio, questa mescolanza tra tempio ed affari non corrispondeva alla destinazione del cortile dei gentili.
Con il suo agire Gesù attaccava l’ordine in vigore disposto dall’aristocrazia del tempio, ma non violava la Legge e i Profeti – al contrario: contro una prassi profondamente corrotta, diventata «diritto», Egli rivendicava il diritto essenziale e vero, il diritto divino di Israele. Solo così si spie[22]ga perché non siano intervenute né le guardie del tempio, né la coorte romana presente nella fortezza Antonia. Le autorità del tempio si limitarono a porre a Gesù la domanda circa la sua legittimazione per una tale azione.
In questo senso è giusta la tesi, motivata minuziosamente soprattutto da Vittorio Messori, secondo cui Gesù nella purificazione del tempio agiva in sintonia con la legge impedendo un abuso nei confronti del tempio. Se però da ciò si volesse trarre la conclusione che Gesù «appare come un semplice riformatore che difende i precetti giudaici di santità» (così Eduard Schweizer; cit. secondo Pesch, Markusevangelium II, p. 200), non si valuterebbe bene il vero significato dell’avvenimento. Le parole di Gesù dimostrano che la sua rivendicazione andava più nel profondo, proprio anche perché col suo agire intendeva dare compimento alla Legge e ai Profeti.

Arriviamo così ad una seconda spiegazione, in contrasto con la prima – l’interpretazione politico-rivoluzionaria dell’evento. Già nell’Illuminismo c’erano stati tentativi di interpretare Gesù come rivoluzionario politico. Ma solo l’opera di Robert Eisler, Iesous basileus ou basileusas, pubblicata in due volumi (Heidelberg 1929/30), ha cercato di dimostrare coerentemente sulla base dell’insieme dei dati neotestamentari che «Gesù sarebbe stato un rivoluzionario politico di impronta apocalittica: avendo suscitato a Gerusalemme un’insurrezione, Egli sarebbe stato arrestato e giustiziato dai Romani» (così Hengel, War Jesus Revolutionär?, p. 7). Il libro fece enorme sensazione, ma nella situa[23]zione particolare degli anni trenta non esercitò ancora un effetto durevole.
Solo negli anni sessanta si formò il clima spirituale e politico in cui una tale visione poteva sviluppare una forza esplosiva. Fu allora Samuel George Frederick Brandon, nella sua opera Jesus and the Zealots (New York 1967), a dare all’interpretazione di Gesù come rivoluzionario politico un’apparente legittimazione scientifica. Con ciò Gesù veniva collocato nella linea del movimento zelota, che vedeva il suo fondamento biblico nel sacerdote Pincas, un nipote di Aronne: Pincas aveva trafitto con la lancia un Israelita che si era messo con una donna idolatra. Ora era visto come modello degli «zelanti» per la legge, per il culto rivolto unicamente a Dio (cfr Num 25).
La sua origine concreta il movimento zelota la individuava nell’iniziativa del padre dei fratelli Maccabei, Mattatia, il quale, di fronte al tentativo di uniformare Israele totalmente al modello della cultura unitaria ellenistica, privandolo con ciò anche della sua identità religiosa, aveva affermato: «Non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra» (1 Macc 2,22). Questa parola avviò l’insurrezione contro la dittatura ellenistica. Mattatia mise in atto la sua parola: uccise l’uomo che, seguendo i decreti delle autorità ellenistiche, voleva pubblicamente sacrificare agli idoli. «Ciò vedendo, Mattatia arse di zelo… Fattosi avanti di corsa, lo uccise sull’altare… Egli agiva per zelo verso la legge» (1 Macc 2,24ss). D’allora in poi, la parola «zelo» (in greco: zēlos) fu la parola guida per esprimere la disponibilità ad impegnarsi con la for[24]za in favore della fede d’Israele, a difendere il diritto e la libertà di Israele per mezzo della violenza.
Secondo la tesi di Eisler e di Brandon, Gesù sarebbe da collocare in questa linea dello «zēlos» degli zeloti – una tesi che negli anni sessanta ha suscitato un’onda di teologie politiche e di teologie della rivoluzione. Come prova centrale di questa teoria si adduce ora la purificazione del tempio, che sarebbe stata evidentemente un atto di violenza, perché senza violenza non avrebbe neppure potuto svolgersi, sebbene gli evangelisti abbiano cercato di nasconderlo. Anche il saluto rivolto a Gesù quale figlio di Davide ed instauratore del regno davidico sarebbe stato un atto politico e la crocifissione di Gesù da parte dei Romani sotto l’accusa di «re dei Giudei» dimostrerebbe pienamente che Egli sarebbe stato un rivoluzionario – uno zelota – e come tale sarebbe stato giustiziato.
Nel frattempo si è calmata l’onda delle teologie della rivoluzione che, in base ad un Gesù interpretato come zelota, avevano cercato di legittimare la violenza come mezzo per instaurare un mondo migliore – il «Regno». I risultati terribili di una violenza motivata religiosamente stanno in modo troppo drastico davanti agli occhi di tutti noi. La violenza non instaura il regno di Dio, il regno dell’umanesimo. È, al contrario, uno strumento preferito dall’anticristo – per quanto possa essere motivata in chiave religioso-idealistica. Non serve all’umanesimo, bensì alla disumanità.

Ma ora, qual è la verità riguardo a Gesù? Era forse uno zelota? La purificazione del tempio era forse [25] l’inizio di una rivoluzione politica? L’intera attività e il messaggio di Gesù – a partire dalle tentazioni nel deserto, dal suo battesimo nel Giordano, dal discorso della montagna fino alla parabola del Giudizio finale (cfr Mt 25) ed alla sua risposta alla professione di fede di Pietro – vi si oppongono decisamente, come abbiamo visto nella Prima Parte di quest’opera.
No, il sovvertimento violento, l’uccisione di altri nel nome di Dio non corrispondeva al suo modo di essere. Il suo «zelo» per il regno di Dio era del tutto diverso. Non sappiamo che cosa precisamente immaginavano i pellegrini quando, nell’«intronizzazione» di Gesù, parlavano del «regno che viene, del nostro padre Davide». Ma ciò che Gesù stesso pensava e intendeva, lo ha reso assai evidente con i suoi gesti e con le parole profetiche, nel cui contesto Egli poneva se stesso.
Certo, ai tempi di Davide l’asino era stato l’espressione della sua regalità e, sulla scia di questa tradizione, Zaccaria presenta il nuovo re della pace che cavalca un asino quando entra nella città santa. Ma già ai tempi di Zaccaria, e ancor più in quelli di Gesù, il cavallo era diventato l’espressione del potere e dei potenti, mentre l’asino era l’animale dei poveri e quindi l’immagine di una regalità ben diversa.
È vero che Zaccaria annuncia un regno «da mare a mare». Ma proprio con ciò egli abbandona il quadro nazionale ed indica una nuova universalità, in cui il mondo trova la pace di Dio e, nell’adorazione dell’unico Dio, è unito al di là di tutte le frontiere. In quel regno di cui il profeta parla, gli [26] archi da guerra sono spezzati. Ciò che in lui è ancora una visione misteriosa, la cui configurazione concreta, scrutata nel suo giungere da lontano, non poteva essere percepita distintamente, si chiarisce lentamente nell’operare di Gesù; tuttavia, solo dopo la risurrezione e nel cammino del Vangelo verso i pagani, può prendere pian piano la propria forma. Ma anche nel momento dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, la connessione con la profezia tardiva, nella quale Gesù inseriva il suo agire, dava al suo gesto un orientamento che contrastava radicalmente con l’interpretazione zelota.
In Zaccaria Gesù non aveva trovato soltanto l’immagine del re della pace che arriva sull’asino, ma anche la visione del pastore ucciso che mediante la sua morte porta la salvezza, e ancora l’immagine del trafitto al quale tutti avrebbero rivolto lo sguardo. L’altra grande cornice di riferimento, entro la quale Egli vedeva il suo operare, era la visione del servo sofferente di YHWH, che servendo offre la vita per i molti e porta così la salvezza (cfr Is 52,13-53,12). Questa profezia tardiva è la chiave d’interpretazione con la quale Gesù apre l’Antico Testamento; a partire da essa Egli stesso diventa poi, dopo la Pasqua, la chiave per leggere in modo nuovo la Legge e i Profeti.

Veniamo ora alle parole interpretative con cui Gesù stesso spiega il gesto della purificazione del tempio. Atteniamoci anzitutto a Marco con cui Matteo e Luca, a prescindere da piccole varianti, coincidono. Dopo l’atto della purificazione Gesù, ci riferisce Marco, «insegnava». L’essenziale di [27] questo «insegnamento», l’evangelista lo vede riassunto nella parola di Gesù: «Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? Voi invece ne avete fatto un covo di ladri» (11,17). In questa sintesi della «dottrina» di Gesù sul tempio – come abbiamo già visto – sono fuse insieme due parole profetiche.
C’è innanzitutto la visione universalistica del profeta Isaia (56,7) di un futuro, in cui nella casa di Dio tutte le nazioni adorano il Signore come l’unico Dio. Nella struttura del tempio il grandissimo cortile dei gentili, in cui la scena si svolge, è lo spazio aperto, che invita tutto il mondo a pregarvi l’unico Dio. L’azione di Gesù sottolinea questa apertura interiore dell’attesa, che nella fede di Israele era viva. Anche se Gesù limita il suo operare consapevolmente a Israele, è tuttavia sempre mosso dalla tendenza universalistica di aprire Israele in modo che tutti nel Dio di questo popolo possano riconoscere l’unico Dio comune a tutto il mondo. Alla domanda che cosa Gesù abbia veramente portato agli uomini, nella Prima Parte avevamo risposto che Egli ha portato Dio alle genti (cfr p. 67). Secondo la sua parola, nella purificazione del tempio si tratta proprio di questa intenzione fondamentale: togliere ciò che è contrario alla comune conoscenza ed adorazione di Dio – aprire quindi lo spazio alla comune adorazione.

Nella stessa direzione orienta una piccola vicenda che Giovanni riferisce circa la «Domenica delle Palme». Con ciò, tuttavia, dobbiamo tener presente che, secondo Giovanni, la purificazione del tem[28]pio si svolse durante la prima Pasqua di Gesù, all’inizio della sua attività pubblica. I sinottici invece – come abbiamo già visto – raccontano solo di un’unica Pasqua di Gesù e così la purificazione del tempio cade necessariamente negli ultimi giorni di tutta la sua attività. Mentre fino a poco tempo addietro l’esegesi partiva prevalentemente dalla tesi che la datazione di san Giovanni fosse «teologica» e non esatta nel senso biografico-cronologico, oggi si vedono sempre più chiaramente le ragioni che militano per una datazione esatta anche dal punto di vista cronologico del quarto evangelista che, nonostante tutta la penetrazione teologica della materia, qui come anche altrove si rivela informato assai precisamente sui tempi, i luoghi e gli svolgimenti. Ma non dobbiamo qui entrare in questa discussione, in definitiva secondaria. Fermiamoci semplicemente ad esaminare quella piccola vicenda che, in Giovanni, non è connessa con la purificazione del tempio, ma chiarisce ulteriormente il suo intrinseco significato.
L’evangelista riferisce che tra i pellegrini c’erano anche alcuni Greci «che erano saliti per il culto durante la festa» (Gv 12,20). Questi Greci si avvicinano a «Filippo, che era di Betsàida di Galilea» e gli chiedono: «Signore, vogliamo vedere Gesù» (12,21). Nell’uomo col nome greco proveniente dalla Galilea semi-pagana vedono ovviamente un mediatore che può aprire loro l’accesso a Gesù. Questa parola dei Greci: «Signore, vogliamo vedere Gesù», ci ricorda in qualche maniera la visione che san Paolo ebbe del Macèdone, che gli disse: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (At 16,9). Il Van[29]gelo continua raccontando che Filippo ne parla ad Andrea e tutti e due espongono la richiesta a Gesù. Come spesso accade nel Vangelo di Giovanni, Gesù risponde in modo misterioso e, sul momento, enigmatico: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12,23s). Alla richiesta di un incontro da parte di un gruppo di pellegrini greci, Gesù risponde con una profezia della passione, in cui interpreta la sua morte imminente come «glorificazione» – una glorificazione che si dimostra nella grande fecondità. Che significa questo?
Non un incontro immediato ed esterno tra Gesù e i Greci è ciò che conta. Ci sarà un altro incontro che andrà molto più nel profondo. Sì, i Greci lo «vedranno»: verrà da loro attraverso la croce. Egli verrà come chicco di grano morto e porterà frutto tra di loro. Essi vedranno la sua «gloria»: nel Gesù crocifisso troveranno il vero Dio, di cui nei loro miti e nella loro filosofia erano alla ricerca. L’universalità, di cui parla la profezia di Isaia (cfr 56,7), viene messa nella luce della croce: a partire dalla croce, l’unico Dio si rende riconoscibile alle nazioni; nel Figlio conosceranno il Padre e, in questo modo, l’unico Dio che si è rivelato nel roveto ardente.

Ritorniamo alla purificazione del tempio. Lì la promessa universalistica di Isaia è collegata con quella parola di Geremia: Avete reso la mia casa un covo di ladri (cfr 7,11). Torneremo ancora bre[30]vemente alla battaglia del profeta Geremia a riguardo ed in favore del tempio nel contesto della spiegazione del discorso escatologico di Gesù. Anticipiamo qui l’essenziale: Geremia s’impegna appassionatamente per l’unità tra culto e vita nella giustizia davanti a Dio; egli lotta contro una politicizzazione della fede, secondo la quale Dio dovrebbe in ogni caso difendere il suo tempio per non perdere il culto. Un tempio, però, che è diventato un «covo di ladri», non ha la protezione di Dio.
Nella connessione tra culto e affari, che Gesù combatte, Egli ovviamente vede nuovamente realizzata la situazione dei tempi di Geremia. In questo senso, la sua parola come il suo gesto sono un avvertimento nel quale, sulla base di Geremia, si poteva percepire anche l’allusione alla distruzione di questo tempio. Ma come Geremia, così anche Gesù non è il distruttore del tempio: ambedue indicano con la loro passione chi e che cosa distruggerà realmente il tempio.

Questa spiegazione della purificazione del tempio diventa ancora più chiara alla luce di una parola di Gesù, che in questo contesto è trasmessa solo da Giovanni, ma che in modo deformato si trova anche sulle labbra di falsi testimoni durante il processo a Gesù, secondo la relazione di Matteo e Marco. Non c’è dubbio che una tale parola risalga a Gesù stesso ed è altrettanto ovvio che essa vada collocata nel contesto della purificazione del tempio.
In Marco, il falso testimone dice di Gesù che [31] Egli avrebbe dichiarato: «Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo» (14,58). Il «testimone», con ciò, è forse molto vicino alla parola di Gesù, sbaglia però in un punto decisivo: non è Gesù a distruggere il tempio; lo abbandonano alla distruzione coloro che lo rendono un covo di ladri, come era avvenuto ai tempi di Geremia.
In Giovanni, la vera parola di Gesù suona così: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (2,19). Con questa parola Gesù rispondeva ad una richiesta da parte dell’autorità giudaica di un segno col quale desse prova della sua legittimazione ad un atto quale la purificazione del tempio. Il suo «segno» è la croce e la risurrezione. La croce e la risurrezione lo legittimano come Colui che instaura il culto giusto. Gesù si giustifica mediante la sua passione – il segno di Giona, che Egli dà a Israele e al mondo. Ma la parola va ancora più in profondità. A ragione Giovanni dice che i discepoli compresero la parola in tutta la sua profondità solo facendone memoria dopo la risurrezione – facendone memoria nella luce dello Spirito Santo come comunità dei discepoli, come Chiesa. Il rifiuto di Gesù, la sua crocifissione, significa allo stesso tempo la fine di questo tempio. L’epoca del tempio è passata. Arriva un nuovo culto in un tempio non costruito da uomini. Questo tempio è il suo corpo – il Risorto che raduna i popoli e li unisce nel Sacramento del suo corpo e del suo sangue. Egli stesso è il nuovo tempio dell’uma[32]nità. La crocifissione di Gesù è al contempo la distruzione dell’antico tempio. Con la sua risurrezione inizia un nuovo modo di venerare Dio, non più su questo o quell’altro monte, ma «in spirito e verità» (Gv 4,23).

Come stanno allora le cose circa lo «zēlos» di Gesù? Riguardo a questa domanda, Giovanni – proprio nel contesto della purificazione del tempio – ci ha donato una parola preziosa che costituisce una risposta precisa ed approfondita alla domanda stessa. Egli ci dice che, in occasione della purificazione del tempio, i discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà» (2,17). È questa una parola tratta dal grande Salmo 69 riguardante la passione. A causa della sua vita conforme alla parola di Dio, l’orante è spinto nell’isolamento; la parola diventa per lui una fonte di sofferenza recatagli da quelli che lo circondano e lo odiano. «Salvami, o Dio, l’acqua mi giunge alla gola… Per te io sopporto l’insulto… mi divora lo zelo per la tua casa…» (Sal 69,2.8.10).
Nel giusto sofferente il ricordo dei discepoli ha riconosciuto Gesù: lo zelo per la casa di Dio lo porta alla passione, alla croce. È questa la svolta fondamentale che Gesù ha dato al tema dello zelo. Ha trasformato nello zelo della croce lo «zelo» che voleva servire Dio mediante la violenza. Così Egli ha eretto definitivamente il criterio per il vero zelo – lo zelo dell’amore che si dona. Secondo questo zelo il cristiano deve orientarsi; in ciò sta la risposta autentica alla questione circa lo «zelotismo» di Gesù.
Questa interpretazione trova la sua conferma nuovamente nei due piccoli episodi con cui Matteo conclude il racconto della purificazione del tempio.
«Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì» (21,14). Al commercio di animali e agli affari col denaro Gesù contrappone la sua bontà risanatrice. Essa è la vera purificazione del tempio. Gesù non viene come distruttore; non viene con la spada del rivoluzionario. Viene col dono della guarigione. Si dedica a coloro che a causa della loro infermità vengono spinti ai margini della propria vita ed ai margini della società. Egli mostra Dio come Colui che ama, e il suo potere come il potere dell’amore.
In piena armonia con tutto ciò sta poi anche il comportamento dei fanciulli i quali ripetono l’acclamazione dell’osanna che i grandi gli rifiutano (cfr Mt 21,15). Da questi «piccoli» Gli verrà sempre la lode (cfr Sal 8,3) – da coloro che sono in grado di vedere con un cuore puro e semplice e che sono aperti alla sua bontà. Così in queste due piccole vicende si preannunzia il nuovo tempio che Egli è venuto a costruire. [34]

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